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Come affrontare gli sguardi curiosi verso la nostra disabilità?

Un argomento affrontato troppo poco, eppure quotidiano. Non c’è bisogno di nascondere la polvere sotto il tappeto.

Se ne parla sempre troppo poco, anche se è uno degli aspetti più comuni che derivano dalla disabilità: lo sguardo degli altri. Gli occhi curiosi di tutte quelle persone normodotate che guardando alla disabilità come a qualcosa di sconosciuto, di originale, di imbarazzante, a volte di superbo.

Hai presente quando trovi qualcuno che ti fissa, magari per strada, te ne accorgi e lui o lei cambiano direzione dello sguardo, imbarazzati? Ecco, intendo proprio questo.

La mia immagine o la tua?

La cosa buffa, quando succede, è che la maggior parte delle volte non siamo noi disabili a provare imbarazzo, non ci sentiamo disturbati dall’insistenza di quello sguardo, ma è proprio l’osservatore a provare disagio.

Questo accade perché non è la persona con disabilità che si vede anormale, ma sono gli altri ad avvertirla così: la disabilità, purtroppo, è ancora un campo oscuro, tenuto per troppo tempo nascosto, lontano dagli occhi della gente.

La persona che ti guarda, non vede te, ma se stesso. Non pensa a te, ma a se stesso: che cosa farei, si chiede, se mi capitasse qualcosa del genere?

Ecco che negli occhi dell’osservatore vediamo un’immagine distorta: non è riflessa la nostra, ma la proiezione della sua.

Un’idea irreale e romantica

Lo sguardo alla disabilità diventa nella maggior parte dei casi una proiezione inconscia da parte dell’osservatore. Certo, è un fenomeno che avviene sempre e comunque, anche tra persone normodotate, anche tra disabile e disabile, ma nel nostro caso è sicuro che avverrà. Perché la disabilità mette a disagio, perché non la si conosce, perché la si elabora con una fantasia spesso romantica, ideale, pietosa, inerte…

Gli sguardi sulla disabilità

Non ricordo dove ho letto che esistono differenti punti di vista di un immaginario osservatore, circa la disabilità. Sei tipologie di sguardo: quello medico, quello annichilito, quello pietoso, quello colmo di ammirazione, quello strumentalizzante, infine lo sguardo che esclude. A volte due o più tipi si combinano insieme, possiamo passare da uno sguardo pietoso all’ammirazione, e viceversa, oppure dell’annichilimento all’esclusione.

Uno sguardo, tanti sguardi

Ciò che mi dà più fastidio, forse, è la pietà, perché presuppone una superiorità da parte della persona normodotata, un giudizio definito e definitivo, come se nella disabilità non potesse crescere il seme della felicità, della fortuna. Una condizione da compatire, una condizione di mera inferiorità.

Dalla parte opposta, però, è facile e altrettanto ingiusto cadere dalla pietà all’ammirazione: non c’è niente di ammirevole in un handicap, perché non c’è niente da idealizzare.

Un equilibrio difficile

Occhio a non cadere nelle generalizzazioni, oppure nelle trappole della comunicazione non verbale. Non saprò mai cosa passa esattamente nella testa di un osservatore, e lui nella mia. Posso soltanto intuirlo. Allo stesso modo non potrò conoscere il suo corpo, o lui il mio. Ecco perché non siamo diversi. Siamo soltanto in equilibrio.

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